Email: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Con la prima sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha affrontato la questione della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale a seguito di appello del pubblico ministero e di riforma della sentenza assolutoria di primo grado con una pronuncia di condanna in appello. L’istituto viene disciplinato dall’art. 603 bis del codice di procedura penale il quale stabilisce che “nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”. Tale norma è stata introdotta dalla legge 23 giugno 2017, n. 103 (cosiddetta riforma Orlando) a seguito di uno sviluppo giurisprudenziale rispettosodell’art. 6, § 3, lett. d) CEDU in correlazione coi principi di oralità ed immediatezza.

In particolare, si è man mano affermata la necessità di rinnovare in appello la prova dichiarativa decisiva ai fini del ribaltamento in malam partem della decisione assolutoria di primo grado in quanto il giusto processo richiede che le prove non possano essere valutate solo sulla base di quanto verbalizzato in altra fase processuale; il Giudice deve “vedere” e “sentire” personalmente il testimone sulla cui base avviene l’overturning.

Un passo fondamentale di detta evoluzione giurisprudenziale si è avuto con la sentenza Dan c. Moldavia del 5 ottobre 2011, con la quale la Corte E.D.U. ha affermato che “coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità [...] la valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate”.

Successivamente, con la sentenza Hanu c. Romania 4 giugno 2013 la Corte E.D.U. ha ribadito il principio (già affermato1) secondo il quale l’imputato ha il diritto di confrontarsicon i testimoni alla presenza di un giudice chiamato, alla fine, a decidere la causa, in quanto l’osservazione diretta da parte del giudice dell’atteggiamento e della credibilità di un determinato testimone può essere determinante”L’immediatezza viene dunque valutata come una vera e propria espressione del diritto di difesa e dell’equo processo.

I principi convenzionali sono stati poi ricostruiti dalla sentenza Sezioni Unite 28 aprile 2016, n. 27620, Dasgupta. Si è anzitutto affermato che nel caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria, fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, il giudice di appello non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell'affermazione della responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, a norma dell'art. 603 comma 3 del codice di procedura penale, a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado; la condanna in appello fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione, integra un vizio di motivazione della sentenza ricorribile ex art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p., per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio” di cui all'art. 533 comma 1 del codice di procedura penale.

La Sezioni Unite Dasgupta ha tratto origine dal modello accusatorio del processo penale, in cui “il giudice di appello, che ripete tutti i poteri decisori da quello di primo grado, [...] può vedersi attribuita la legittimazione a ribaltare un esito assolutorio, sulla base di un diverso apprezzamento delle fonti dichiarative direttamente assunte dal primo giudice, solo a patto che nel giudizio di appello si ripercorrano le medesime cadenze di acquisizione in forma orale delle prove elaborate in primo grado”. Del resto dal lato del giudice, la percezione diretta è il presupposto tendenzialmente indefettibile di una valutazione logica, razionale e completa”.

Successivamente la Sezioni Unite, 19 gennaio 2017, n. 18620, Patalano, ha ribadito che il metodo “incontestabilmente ... migliore per la formazione e valutazione della prova” prevede l’oralità, l’immediatezza, l’apprezzamento diretto delle prove da parte del giudice di appello affinché egli possa valutare la fondatezza dei dubbi sull’assoluzione di primo grado.

La prima sentenza in commento non manca infine di richiamare due aspetti fondamentali.

Anzitutto, la prova dichiarativa in oggetto deve essere decisiva, cioè deve avere determinato o anche soltanto contribuito a determinare un esito liberatorio che, se espunto dal complesso del materiale probatorio, si rivela potenzialmente idoneo a incidere sull’esito del giudizio di appello”. Sulla base della Sezioni Unite Dasgupta sono prove decisive anche quelle che, ritenute dal giudice di primo grado come di poco valore, sono invece rilevanti nella prospettiva del pubblico ministero per giungere ad una condanna.

Il secondo argomento di rilievo è costituito dall’obbligo di motivazione rafforzata. Con le sentenze Sezioni Unite, 30 ottobre 2003, n. 45276, Andreotti, e Sezioni Unite, 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, si è stabilito che i giudici di appello che pronunciano una sentenza di ribaltamento debbono motivare con maggior persuasività per “far venir meno ogni ragionevole dubbio sulla responsabilità dell’imputato [...] e non limitarsi ad una ricostruzione alternativa rispetto a quella del primo Giudice”.

Con la seconda sentenza in commento, la Suprema Corte ha affrontato il tema della non obbligatorietà della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in caso di conferma della sentenza assolutoria di primo grado a seguito di appello del pubblico ministero o della parte civile.

L’istituto di cui all’art. 603 comma 3 bis c.p.p. costituisce la disciplina normativa di tale questione, ma viene interpretato in modo differente rispetto al primo caso analizzato: la stretta correlazione con il principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, infatti, non è necessaria in caso di assoluzione.

Le sentenze Sezioni Unite 28 aprile 2016, n. 27620, Dasgupta, e Sezioni Unite 19 gennaio 2017, n. 18620, Patalano, hanno sì affermato che il principio di immediatezza è fondamentale per il contraddittorio, ma anche che esso è “modulabile dal legislatore sulla base dell’incidenza dell’oltre ogni ragionevole dubbio sulla decisione da assumere” e che esso non può comunque essere usato “per modificare la natura del giudizio di appello,sostanzialmente cartolare, e renderlo un novum iudicium”.

Inoltre, la sentenza Sezioni Unite 21 dicembre 2017, n. 14800, Troise, ha affermato che il giudice deve rispettare un “più elevato standard argomentativo” per la riforma di una sentenza assolutoria; dunque, al contrario, il giudice di appello che conferma la pronuncia di proscioglimento di primo grado non ha l’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale .

In conclusione, la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza” (Cass. pen., sez VI, 3 novembre 2011, n. 40159, Galante).

A cura di Valentina Manchisi.

Con la sentenza n. 6551/2021 pronunciata dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite in data 24.09.2020, con deposito delle motivazioni il 19.02.2021, sono stati risolti gli insorti contrasti interpretativi in ordine al metodo di calcolo della superficie minima dello spazio personale per i detenuti all’interno della cella ed agli eventuali fattori compensativi rilevanti al fine di scongiurare la disumanità della detenzione e, dunque, la violazione dell’art. 3 CEDU, con l’affermazione dei seguenti principi di diritto:

  • Nella valutazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella cella e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello” e
  • I fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell'art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all'istanza presentata ai sensi dell'art. 35 ter ord. pen..

La Suprema Corte, nella sua massima composizione, è giunta a tali enunciazioni partendo dal richiamo operato dall’art. 35 ter L. 354/1975 (Ordinamento Penitenziario) all’art. 3 CEDU, secondo un meccanismo mobile il cui contenuto precettivo è, dunque, eterodefinito (determinato per relationeme si modella sull’interpretazione fornita dalla Giurisprudenza della stessa Corte EDU.

Proprio rispetto alla nozione di condizioni disumane degradanti, con particolare riferimento alla detenzione, viene evidenziata, nello specifico e quale base della risoluzione dei precedenti contrasti, la progressiva presa di consapevolezza, nelle pronunce della Corte EDU circa il fatto che alla privazione della libertà personale non debba conseguire la privazione di altri diritti e, di più, che le restrizioni di questi ultimi siano legittime solo ove necessitate da ragionevoli esigenze legate alla reclusione stessa. Il tutto nel rispetto del criterio della c.d. soglia minima di gravità (Corte EDU, 8/2/2006 Alver c. Estonia) a mente del quale le modalità di esecuzione della restrizione in carcere non devono provocare all’interessato un’afflizione di intensità tale da eccedere l’inevitabile sofferenza legata alla detenzione.

Guidata da tale supremo principio e dalle sue declinazioni, la Corte di Cassazione fornisce nella sentenza in commento un excursus della principale giurisprudenza della Corte EDU, nonché degli interventi legislativi operati nel nostro ordinamento che ne sono stati frutto, onde far comprendere la ratio sottesa all’enunciazione dei principi di diritto affermati.

L’odierna disciplina nazionale in materia – la modifica dell’art. 69 O.P. e l’introduzione dell’art. 35 bis O.P. con il Decreto Legge 23 dicembre 2013, n. 146 convertito con modificazioni dalla Legge 21 febbraio 2014, n. 10 e l’introduzione dell’art. 35 ter O.P. con il Decreto Legge 25 giungo 2014, n. 92, convertito con modificazioni dalla Legge 11 agosto 2014, n. 117– costituisce, infatti, un precipitato della pronuncia della sentenza “pilota” Torreggiani c. Italia (Corte EDU del 08.01.2013), con cui l’organo giurisdizionale sovrannazionale aveva sancito la necessità che lo Stato italiano predisponesse una forma effettiva di riparazione alla carcerazione in condizioni contrarie all’art. 3 CEDU, attraverso la previsione di rimedi preventivi e compensativi.

E’, dunque, nell’applicazione di tali misure (ritenute adeguate da una successiva sentenza della Corte EDU, 16.09.2016, Stella c. Italia) che sono sorte le questioni giuridiche ed i contrapposti orientamenti giurisprudenziali, oggetto di attuale risoluzione, relativi ai criteri di determinazione dello spazio individuale minimo intramurario in una cella collettiva e, in particolare, se il letto concorra alla vivibilità della cella o se, invece, sia da ritenersi ostativo alla libertà di movimento nella stessa.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, facendo propria la valutazione multifattoriale e cumulativa delle concrete condizioni detentive adottata dalla Grande Camera nel procedimento MurŠiĆ c. Croazia, richiama nella propria decisione, innanzitutto, l’esistenza di una presunzione forte della violazione dell’art. 3 CEDU ogni qualvolta lo spazio a disposizione del detenuto sia inferiore a 3 metri quadri; presunzione forte, ma relativa e ciò a dire che la stessa possa essere superata laddove vi siano altri fattori in grado di compensare la carenza di spazio vitale.

La Corte approfondisce, poi, altri due passaggi di tale pronuncia sovrannazionale: il primo relativo alla pacifica esclusione dal computo di cui sopra della superficie dei servizi igienici, cui aderisce, ed il secondo riferito al calcolo della superficie disponibile nella cella inclusivo dello spazio occupato dai mobili, cui segue l’ulteriore considerazione circa l’importanza di determinare se i detenuti abbiano la possibilità di muoversi normalmente nella cella.

Nella pronuncia in commento, il Supremo Consesso, superando le precedenti e contrarie interpretazioni, anche valorizzando il dato letterale dell’etimologia del sostantivo della lingua italiana “mobile”, enuncia la necessità di una lettura sistematica delle proposizioni di cui al paragrafo precedente e, attraverso il loro combinato disposto, sancisce l’esclusione dal computo dello spazio minimo individuale degli arredi fissi e cioè che non si possono in alcun modo spostare.

Quanto, poi, ai c.d. fattori esterni rispetto al problema del sovraffollamento carcerariola Corte di Cassazione, ribadita l’esigenza di un giudizio complessivo ed unitario circa la potenziale natura inumana o degradante della pena, delinea i rapporti tra il sovraffollamento e gli altri aspetti che incidono sulle condizioni di detenzione quali la brevità temporale della riduzione dello spazio personale, la libertà di movimento fuori dalla cella, lo svolgimento di adeguate attività inframurarie e le generali condizioni dignitose della detenzione, che potranno essere così riassunti a seconda che lo spazio minimo sia:

  • -  inferiore ai tre metri quadri, il trattamento sarà considerato rispettoso dell’art. 3 della CEDU solo allorquando intervengano fattori compensativi (che assumono, dunque, carattere positivo, attenuando il disagio di uno spazio troppo ristretto all’interno della cella). Ad esempio, la sottoposizione ad un regime c.d. “semiaperto”, la breve durata della detenzione, lo svolgimento attività lavorativa o corsi di formazione professionale e l’adeguatezza dei servizi resi all’interno del carcere; diversamente, ad esempio in ipotesi di detenuto sottoposto a regime “chiuso”, trattandosi di presunzione forte, la ristrettezza della superficie minima vitale, sarà lesiva del dettato convenzionale;

  • -  tra i tre e i quattro metri quadri, la violazione dell’art. 3 CEDU potrà, comunque, dirsi integrata in presenza di ulteriori negative condizioni di detenzione ed inadeguatezza del regime penitenziali (quali l’assenza di acqua calda o sufficiente illuminazione o areazione);

          - superiore ai quattro metri quadri, la disumanità del trattamento potrà essere ancorata unicamente a fattori differenti rispetto al sovraffollamento       carcerario e, dunque, al fattore “spazio”.

In conclusione, in virtù dei sopra richiamati principi di diritto e delle argomentazioni tutte dedotte, nella vicenda in esame, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno respinto il ricorso del Ministero della Giustizia avverso il provvedimento del Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila, il quale confermava il provvedimento adottato dal Magistrato che aveva accolto il ricorso ex art. 35 ter Legge n. 354/1975 di un detenuto, concedendo allo stesso i rimedi correttivi ivi previsti, avendo il Magistrato correttamente applicato i criteri di calcolo sopra enucleati, scomputando dalla superficie considerata gli arredi fissi presenti nella cella, con il risultato di uno spazio minimo inferiore a tre metri quadri ed in mancanza di ulteriori elementi compensativi.

A cura di Valentina Pozzi

La prova logica ha altrettanta dignità di quella documentale: il fatto che non vi siano filmati o prove documentali circa la manipolazione delle provette di urina non può significare che essa rimanga solo una congettura, in considerazione del fatto che essa sola spiega in maniera convincente l’anomalia della quantità di DNA riscontrata.

È sul principio di vicinanza della prova che si fonda il provvedimento di archiviazione del Gip di Bolzano con riferimento al procedimento a carico di Alex Schwazer.
Detto principio, trae origine in ambito civilistico, ma deve valere con ancora più vigore 
– scrive il Gip di Bolzano – in ambito penalistico, ove vi sono beni e interessi altrettanto primari e costituzionalmente garantiti: la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” (art. 24, co. 2, Costituzione).

In particolare, il principio di vicinanza della prova è espressione di un indirizzo consolidato nelle sentenze della Corte di Cassazione Civile degli anni Novanta, ma si afferma con maggiore vigore solo negli anni 2000, prima con la sentenza delle Sezioni Unite n. 13533 del 2001, e poi a partire dal 2005 con le sentenze della Cassazione Civile n. 577 e 582 in tema di responsabilità medica rispettivamente contrattuale ed extracontrattuale.

La giurisprudenza evidenzia come l’onere probatorio gravante, a norma dell’art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l'estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto "fatti negativi", in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, gravando esso pur sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costitutivo. Tuttavia, in tal caso la relativa prova può esser data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, od anche

mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo” (Cass. 7.5.2015, n. 9201; Cass. n. 18487/2003; Cass. n. 23229/2004; Cass. n. 5162/2008; Cass., S.U., n. 18046/2010).
È proprio alla luce di detto principio che il Gip di Bolzano 
dispone l’archiviazione del procedimento a carico di Alex Schwazer per non avere commesso il fatto, ritenendo che la manipolazione delle provette rappresenti l’unica spiegazione logica della anomala concentrazione del DNA riscontrato nell’urina dell’atleta.

A cura di Stefania Ghezzi.

Con riferimento alla fattispecie di reato di omesso versamento delle imposte è possibile l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131- bis c.p.. In particolare, se l’evasione è contenuta nel limite del 10% della soglia, il giudice non può ancorare la propria decisione al solo importo complessivamente evaso per non riconoscere la particolare tenuità, ma dovrà esaminare gli altri criteri e requisiti richiesti dall’art.131-bis c.p., in special modo la natura isolata o reiterata della condotta illecita posta in essere da parte del contribuente.

A cura della collega Stefania Ghezzi

Pagina 10 di 49

Copyright 2017 Camera Penale di Monza P.IVA 06263200963 - Powered by Global IT

Top