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IL CALCOLO DELLO SPAZIO MINIMO VITALE DEL DETENUTO E LA RILEVANZA DEI C.D. CRITERI COMPENSATIVI

29 Marzo 2021
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Con la sentenza n. 6551/2021 pronunciata dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite in data 24.09.2020, con deposito delle motivazioni il 19.02.2021, sono stati risolti gli insorti contrasti interpretativi in ordine al metodo di calcolo della superficie minima dello spazio personale per i detenuti all’interno della cella ed agli eventuali fattori compensativi rilevanti al fine di scongiurare la disumanità della detenzione e, dunque, la violazione dell’art. 3 CEDU, con l’affermazione dei seguenti principi di diritto:

  • Nella valutazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella cella e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello” e
  • I fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell'art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all'istanza presentata ai sensi dell'art. 35 ter ord. pen..

La Suprema Corte, nella sua massima composizione, è giunta a tali enunciazioni partendo dal richiamo operato dall’art. 35 ter L. 354/1975 (Ordinamento Penitenziario) all’art. 3 CEDU, secondo un meccanismo mobile il cui contenuto precettivo è, dunque, eterodefinito (determinato per relationeme si modella sull’interpretazione fornita dalla Giurisprudenza della stessa Corte EDU.

Proprio rispetto alla nozione di condizioni disumane degradanti, con particolare riferimento alla detenzione, viene evidenziata, nello specifico e quale base della risoluzione dei precedenti contrasti, la progressiva presa di consapevolezza, nelle pronunce della Corte EDU circa il fatto che alla privazione della libertà personale non debba conseguire la privazione di altri diritti e, di più, che le restrizioni di questi ultimi siano legittime solo ove necessitate da ragionevoli esigenze legate alla reclusione stessa. Il tutto nel rispetto del criterio della c.d. soglia minima di gravità (Corte EDU, 8/2/2006 Alver c. Estonia) a mente del quale le modalità di esecuzione della restrizione in carcere non devono provocare all’interessato un’afflizione di intensità tale da eccedere l’inevitabile sofferenza legata alla detenzione.

Guidata da tale supremo principio e dalle sue declinazioni, la Corte di Cassazione fornisce nella sentenza in commento un excursus della principale giurisprudenza della Corte EDU, nonché degli interventi legislativi operati nel nostro ordinamento che ne sono stati frutto, onde far comprendere la ratio sottesa all’enunciazione dei principi di diritto affermati.

L’odierna disciplina nazionale in materia – la modifica dell’art. 69 O.P. e l’introduzione dell’art. 35 bis O.P. con il Decreto Legge 23 dicembre 2013, n. 146 convertito con modificazioni dalla Legge 21 febbraio 2014, n. 10 e l’introduzione dell’art. 35 ter O.P. con il Decreto Legge 25 giungo 2014, n. 92, convertito con modificazioni dalla Legge 11 agosto 2014, n. 117– costituisce, infatti, un precipitato della pronuncia della sentenza “pilota” Torreggiani c. Italia (Corte EDU del 08.01.2013), con cui l’organo giurisdizionale sovrannazionale aveva sancito la necessità che lo Stato italiano predisponesse una forma effettiva di riparazione alla carcerazione in condizioni contrarie all’art. 3 CEDU, attraverso la previsione di rimedi preventivi e compensativi.

E’, dunque, nell’applicazione di tali misure (ritenute adeguate da una successiva sentenza della Corte EDU, 16.09.2016, Stella c. Italia) che sono sorte le questioni giuridiche ed i contrapposti orientamenti giurisprudenziali, oggetto di attuale risoluzione, relativi ai criteri di determinazione dello spazio individuale minimo intramurario in una cella collettiva e, in particolare, se il letto concorra alla vivibilità della cella o se, invece, sia da ritenersi ostativo alla libertà di movimento nella stessa.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, facendo propria la valutazione multifattoriale e cumulativa delle concrete condizioni detentive adottata dalla Grande Camera nel procedimento MurŠiĆ c. Croazia, richiama nella propria decisione, innanzitutto, l’esistenza di una presunzione forte della violazione dell’art. 3 CEDU ogni qualvolta lo spazio a disposizione del detenuto sia inferiore a 3 metri quadri; presunzione forte, ma relativa e ciò a dire che la stessa possa essere superata laddove vi siano altri fattori in grado di compensare la carenza di spazio vitale.

La Corte approfondisce, poi, altri due passaggi di tale pronuncia sovrannazionale: il primo relativo alla pacifica esclusione dal computo di cui sopra della superficie dei servizi igienici, cui aderisce, ed il secondo riferito al calcolo della superficie disponibile nella cella inclusivo dello spazio occupato dai mobili, cui segue l’ulteriore considerazione circa l’importanza di determinare se i detenuti abbiano la possibilità di muoversi normalmente nella cella.

Nella pronuncia in commento, il Supremo Consesso, superando le precedenti e contrarie interpretazioni, anche valorizzando il dato letterale dell’etimologia del sostantivo della lingua italiana “mobile”, enuncia la necessità di una lettura sistematica delle proposizioni di cui al paragrafo precedente e, attraverso il loro combinato disposto, sancisce l’esclusione dal computo dello spazio minimo individuale degli arredi fissi e cioè che non si possono in alcun modo spostare.

Quanto, poi, ai c.d. fattori esterni rispetto al problema del sovraffollamento carcerariola Corte di Cassazione, ribadita l’esigenza di un giudizio complessivo ed unitario circa la potenziale natura inumana o degradante della pena, delinea i rapporti tra il sovraffollamento e gli altri aspetti che incidono sulle condizioni di detenzione quali la brevità temporale della riduzione dello spazio personale, la libertà di movimento fuori dalla cella, lo svolgimento di adeguate attività inframurarie e le generali condizioni dignitose della detenzione, che potranno essere così riassunti a seconda che lo spazio minimo sia:

  • -  inferiore ai tre metri quadri, il trattamento sarà considerato rispettoso dell’art. 3 della CEDU solo allorquando intervengano fattori compensativi (che assumono, dunque, carattere positivo, attenuando il disagio di uno spazio troppo ristretto all’interno della cella). Ad esempio, la sottoposizione ad un regime c.d. “semiaperto”, la breve durata della detenzione, lo svolgimento attività lavorativa o corsi di formazione professionale e l’adeguatezza dei servizi resi all’interno del carcere; diversamente, ad esempio in ipotesi di detenuto sottoposto a regime “chiuso”, trattandosi di presunzione forte, la ristrettezza della superficie minima vitale, sarà lesiva del dettato convenzionale;

  • -  tra i tre e i quattro metri quadri, la violazione dell’art. 3 CEDU potrà, comunque, dirsi integrata in presenza di ulteriori negative condizioni di detenzione ed inadeguatezza del regime penitenziali (quali l’assenza di acqua calda o sufficiente illuminazione o areazione);

          - superiore ai quattro metri quadri, la disumanità del trattamento potrà essere ancorata unicamente a fattori differenti rispetto al sovraffollamento       carcerario e, dunque, al fattore “spazio”.

In conclusione, in virtù dei sopra richiamati principi di diritto e delle argomentazioni tutte dedotte, nella vicenda in esame, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno respinto il ricorso del Ministero della Giustizia avverso il provvedimento del Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila, il quale confermava il provvedimento adottato dal Magistrato che aveva accolto il ricorso ex art. 35 ter Legge n. 354/1975 di un detenuto, concedendo allo stesso i rimedi correttivi ivi previsti, avendo il Magistrato correttamente applicato i criteri di calcolo sopra enucleati, scomputando dalla superficie considerata gli arredi fissi presenti nella cella, con il risultato di uno spazio minimo inferiore a tre metri quadri ed in mancanza di ulteriori elementi compensativi.

A cura di Valentina Pozzi

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